Quando le piante vanno in montagna

Entrare in un bosco, per noi, significa varcare la soglia di un pianeta alieno, letteralmente. Se, infatti, la maggioranza degli animali ha evoluto un corpo dotato di organi specializzati in un’unica funzione – il cervello, il cuore, il fegato -, le piante hanno seguito una strada diversa: ogni funzione vitale è diffusa in tutto il corpo della pianta, nulla è indispensabile e tutto può ricrescere se tagliato o danneggiato. Le due strategie sono state forse influenzate dalla possibilità o meno di movimento: davanti a un’aggressione, infatti, una pianta non può spostarsi o fuggire, come farebbe un animale. Ed è da questa “strettoia” della selezione naturale che derivano gran parte degli apparati delle piante, compresi gli adattamenti alla vita in montagna.

Intorno, non un albero era rimasto in piedi. Quando la tempesta Vaia, alla fine dell’ottobre del 2018, colpì quella porzione di abetaia della Val di Fiemme, i venti stavano già soffiando a oltre 200 km/h, abbattendo uno dopo l’altro gli enormi alberi che, secoli prima, avevano fornito il legname per gli straordinari violini di Stradivari. Quei violini, ora, non suonano più.

Nonostante l’abete rosso sia uno dei grandi protagonisti della vegetazione montana, millenni di evoluzione non sono stati sufficienti a dotarlo delle risorse necessarie per resistere a un evento di tale portata. Abitare in quota, infatti, rappresenta una delle più grandi sfide per ogni essere vivente, che sia animale o vegetale.

 

Restringere le foglie

Perché proprio l’abete rosso fu scelto, in epoca storica, per piantumare vaste aree montane, tra cui quelle devastate da Vaia? Perché proprio una conifera e non una latifoglia? La risposta risiede nel fatto che le prime sono, nel mondo degli alberi, i veri scalatori, capaci di vivere a quote inarrivabili per castagni, aceri o faggi. Il loro principale segreto risiede nelle foglie aghiformi, uno dei tanti risultati frutto del setaccio della selezione naturale.

Anche se può sembrare paradossale, il più grande ostacolo alla vita in quota non è il freddo, ma la scarsità d’acqua: la siccità. In inverno le precipitazioni non mancano, ma sono in forma nevosa e, in modo rapido, diventano poi ghiaccio una volta al suolo, generando una prolungata carenza di acqua per gli organismi che vivono in quelle zone. La foglia è dotata di una moltitudine di pori che serve proprio a disperdere l’acqua in eccesso tramite la traspirazione. In caso di necessità, questa perdita va limitata e nelle conifere si è evoluto uno stratagemma ingegnoso: ridurre la superficie traspirante mutando la forma della foglia fino a trasformarla in un ago. Una strategia che funziona bene sia d’estate, quando i raggi del Sole sono più diretti e le precipitazioni più scarse, sia d’inverno, per evitare il cosiddetto “disseccamento da gelo”, condizione che viene a crearsi quando il suolo ghiacciato impedisce alla pianta di assorbire acqua dal terreno. A tutto ciò va aggiunta anche la sostanza cerosa che ricopre gli aghi delle conifere, riducendo ulteriormente la traspirazione fogliare.

Ma i veri campioni delle alte quote sono i larici: piante che in autunno danno vita al romantico panorama dai caldi toni rossi, arancioni e gialli tipico delle vallate trentine. Non solo i larici hanno gli aghi invece delle foglie, ma all’arrivo del grande freddo li perdono, spogliandosi completamente per meglio affrontare l’inverno. Anche in questo caso, la ragione di fondo è ancora una volta difendersi dalla traspirazione eccessiva e dal conseguente disseccamento. Allo stesso tempo, fronde composte da aghi e non da foglie permettono di essere più resistenti ai forti venti che spirano in montagna, sebbene con dei limiti, come dimostrato da Vaia.

 

Fiori grandi, foglie piccole

Le piante che vivono a quote superiori rispetto ai larici sono state costrette a evolvere adattamenti ancora più estremi. La saxifraga, la stella alpina e la silene, tipiche degli ambienti alto alpini, sono accomunate dall’avere un portamento basso, a cuscinetto, detto pulvino, foglie piccole, pelose e carnose come quelle di una pianta grassa (succulenta) e fiori incredibilmente grandi.

Il portamento basso è un adattamento volto a resistere al freddo e al vento, sfruttando al meglio la poca terra presente tra le rocce. Questa conformazione della pianta, inoltre, le consente di creare una sorta di microcosmo: quando le foglie cadono, infatti, rimangono vicino alla pianta stessa, decomponendosi e andando a formare del fertile humus, una risorsa preziosa nelle zone povere di nutrienti come sono quelle d’alta quota.

Anche le foglie piccole, in modo analogo agli aghi delle conifere, riducono la traspirazione e i peli con cui sono spesso ricoperte non servono a riscaldarle, ma diminuiscono ulteriormente la perdita di acqua intrappolando uno strato di aria che le isola dell’ambiente esterno.

I fiori grandi, per concludere il nostro viaggio dentro il mondo delle piante che vivono in montagna, rivestono un ruolo fondamentale nella loro riproduzione, fine ultimo di ogni essere vivente. Non potendo affidarsi a un vento spesso violento e incostante per diffondere il polline, la strategia evolutiva migliore per questi vegetali è ricaduta sugli insetti pronubi, gli impollinatori. Anche gli insetti, però, a queste quote sono pochi e la stagione estiva breve, quindi è necessario essere molto evidenti per attirarli e sfruttare il loro servizio di impollinazione: da qui, i fiori enormi rispetto alle dimensioni generali della pianta.

Quella delle piante che si spingono a vivere in montagna, ad alta quota, sfruttando ambienti spesso poveri e con condizioni fisiche difficili, è un’incredibile storia di adattamento che sottolinea una volta di più le infinite strade che l’evoluzione e la selezione naturale possono percorrere. Infinite, ma tutte bellissime.