La sostenibilità delle parole green

Se è vero che sono le parole che utilizziamo a definire e plasmare la realtà, perché le parole green che mastichiamo da decenni non hanno ancora invertito il colore del pianeta?

Nel 2021 termini come “tutela ambientale” hanno raggiunto il loro picco di utilizzo. Ciò significa che noi, di sostenibilità ambientale, parliamo tanto. Troppo, forse, per riuscire a discernere e districare le informazioni a cui ci esponiamo. Troppo per distinguere ciò che è folklore da ciò che realmente serve fare, ciò che è facile comunicare tanto per far vedere che a parole siamo più bravi degli altri da ciò che concretamente incide. Come possiamo alfabetizzarci per smascherare le favole furbe sulla sostenibilità? Studiando, informandoci, verificando i risultati. Tenendo a mente che se non siamo capaci di modificare le nostre azioni quotidiane, fosse anche una sola, ogni giorno, riempirci la bocca di parole sull’ambiente non solo ci rende a lungo andare ridicoli, ma, più grave di tutto, ritarda le azioni che sanno produrre effetti concreti.

Parole sommerse

Sostenibilità e sviluppo sostenibile si affacciano per la prima volta al mondo nel 1987 grazie a una donna, Gro Harlem Bruntland, già primo ministro del governo norvegese e al tempo presidente della Commissione Mondiale ambiente e sviluppo. Gro Harlem redige un documento, il Rapporto Brundtland (Our Common Future), quello che ci ha portato fino alle Agende 2030 e 2050 europee e mondiali. “Lo sviluppo sostenibile è quello sviluppo che consente alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”. Due anni dopo, nel 1989, l’ONU convoca la prima Conferenza su ambiente e sviluppo.

Ci abbiamo messo 30 anni a far entrare la parola sostenibilità nelle agende politiche dei nostri governi, molto meno a farla capitombolare nel nostro vocabolario, con una frequenza tale che ad ogni nuovo ciclo l’abbiamo svuotata di significato. Eppure, la definizione stava già tutta nel documento del 1987, lì dentro la dichiarazione del problema ma anche la soluzione. Soluzione che sembra sempre più delegata ad altri piuttosto che a noi.

Quanto ci piace parlare e quanto invece siamo disposti a modificare le nostre abitudini? A partire dalle più piccole, tipo spegnere l’interruttore della tv se nessuno in casa la sta guardando o ricordarsi di riempire una borraccia per non dover poi acquistare bottigliette di plastica?

Parole salvate

Un modo utile per tornare a riempire di significato e restituire dignità a quelle parole dalle quali davvero dipendono i destini di tutti può essere ripartire dalla definizione e poi non accontentarsi, fare domande, approfondire e chiedersi come quando e perché. Questo ci permette di valutare l’utilità delle nostre azioni, di inserirle in una scala di valori e decidere dove poter continuare a intervenire. Da qui la capacità di comprendere il modo in cui quelle parole vengono utilizzate, se propriamente o impropriamente da altri, e leggerne criticamente l’operato, il nostro compreso. Non abbiamo bisogno di fedeli ma di combattenti. Soprattutto non abbiamo tempo da perdere. Non basta più dire “amico del pianeta”, “sostenibile”, “attento all’ambiente”, … Non basta dire neanche, ad esempio, continuiamo a piantumare, se non sappiamo come, quando, cosa e perché piantiamo alberi. Anche nella piantumazione se non diamo priorità alla biodiversità, sapere se serve o no piantare lì e quale varietà, rischiamo di fare danni piuttosto che risolverne. La natura ha i suoi tempi, i suoi ritmi, i suoi bisogni. Ha bisogno di alberi che si diano il tempo di radicare e di diventare solidi, ha bisogno di un habitat che permetta la continuazione della vita delle specie animali che li abitano. A volte ha bisogno di pascoli proprio là dove continuiamo a infilare abeti.

Allora sì, anche le parole green torneranno ad avere un ruolo e, soprattutto, significato.