Gli alchimisti della Val di Ledro

Storie di territori

La storia del Trentino è una storia forestale. Segherie, vetrerie, miniere, toponomastica: sono dappertutto i segni del rapporto tra uomini e boschi. Un rapporto iniziato ai tempi in cui dalle foreste si ricavava tutto quel che era necessario per sopravvivere, un rapporto che prosegue ancora oggi.

 

Quello dell’estrazione della pece è un processo che in Val di Ledro si è evoluto a partire dalla preistoria; un’arte con una storia tale alle spalle, da rendere celebri gli artigiani di questa valle per le loro speciali abilità.

Ogni valle, in Trentino, è il racconto di un’arte. La Val Rendena era terra di abili arrotini, erano famosi i carbonai del Bondone, i taglia legna della Val di Rabbi e pregiate le broche – i chiodi per le scarpe – modellate dagli artigiani di Ledro. E non era raro che, appresa l’arte, questi artigiani lasciassero le loro valli per creare un ‘angolo di casa’ oltre oceano, dove – forse – le condizioni erano meno dure. Fra queste arti, di certo, un posto speciale hanno quelle che legano l’uomo al legno. Scultori, taglia legna, costruttori, carbonai e … pegolòti, gli artisti della pece.

 

La risorsa della pece

Il legno su queste montagne è un alleato speciale, e un vicino misterioso. Dimora di animali e presenze, è l’alleato dei rigidi inverni, la sicurezza della propria casa; è il prezioso carbone, fragile come il vetro, è la pece. Tanta era l’abilità dei peciaioli della Val di Ledro da renderne celebre il nome fino in pianura. Erano artisti, quasi alchimisti quelli che, a Tione, trasformavano il legno in quella sostanza semisolida e scura che è la pece. Pegolòt li chiamavano, quelli in grado di estrarre la Tia, la resina del pino silvestre, l’anima della pece. La loro arte veniva da lontano, nel tempo: una tradizione iniziata con i primi uomini delle Alpi, quando quella sostanza appiccicosa e scura era il collante per le punte di selce sulle frecce, consentiva di aggiustare utensili e oggetti in terracotta e, forse più importante di tutto, impermeabilizzare le canoe. Era dopo era, l’arte del peciaiolo si raffinò diventando celebre fino a raggiungere le orecchie di chi, della pece migliore, aveva bisogno per vincere: Venezia. Gli artisti di Tiarno furono ingaggiati per rifornire l’arsenale della Serenissima.

 

resina

 

 

Il mestiere della pece

Soddisfazione e fatica: il mestiere, infatti, era speciale quanto duro. Cominciava con la ricerca delle ceppaie giuste, a volte ci volevano giorni e giorni nel bosco per trovare quelle vecchie, le cui radici fossero piene di resina. Poi il legno andava trasportato per i versanti, fino a raggiungere l’officina. Qui, con fiamma non troppo debole e non troppo forte, andava asciugato per 8 giorni prima di passare al forno per la cottura. Si trattava di un ‘alambicco’ particolare a forma di pera dell’altezza di 180 cm circa e formato da una doppia parete di argilla, una ‘bocca superiore’ per inserire il legno e un colatoio inferiore, fatto di legno anch’esso, da dove colava fuori la pece. L’intercapedine fra le due pareti era la camera di combustione che aveva il compito di portare la temperatura della ‘stanza del legno’ ad almeno 70 gradi. La cottura durava almeno 30 ore, dopodiché la pece colava fuori dalla stanza del legno e passava lungo il colatoio per essere raccolta in appositi recipienti.

 

Il mito della pece

Anticamente la pece era usata, così come sgorgava, come cicatrizzante o unita a farina integrale e bianco d’uovo montato a neve applicato sulle fratture, bendato e legato stretto, o ancora mischiata a cenere e olio per fare il sapone. Era la schiuma del sapone. È tutt’ora ancora utilizzata, benché prodotta con sistemi molto diversi, nella ceralacca o negli stoppini per candele, imbevuti di pece, in alcune vernici o colle e nella ceretta per la depilazione, per cerare i fili o impermeabilizzare i cappelli.

Oggi in Val di Ledro rimane poco di quel mestiere speciale che legava l’uomo al bosco, qualche resto dell’ultimo forno acceso per l’ultima volta dall’ultimo pegolòt nel 1958. Ma resta indelebile il ricordo e l’orgoglio di uno speciale primato, fra le genti del posto.